martedì 3 maggio 2022

Non chiamiamolo semplicemente fango...



Se c'è una cosa che riesce ad accomunare praticamente quasi tutte le grotte e le esperienze di ogni speleologo è quella cosa che chiamiamo fango Morbido, pastoso, liquido, oppure secco, il fango è un deposito tanto ubiquo quando eterogeneo. Un qualcosa solo apparentemente semplice. Sulla composizione, la natura e la genesi di questi depositi si possono fare molteplici ricerche e caratterizzazioni mineralogiche e questo è ben noto. Meno noto è che molti di quei fanghi in cui spesso ci imbattiamo, in certe condizioni, sono dei veri e proprio ecosistemi microbici altamente specializzati. 



Qui per esempio ci troviamo davanti ad un classico pavimento composto da zolle di fanghi parzialmente disseccati: una formazione in gergo definita mud cracks. Un composto che conserva al suo interno ancora un notevole grado di umidità ma che per condizioni strutturali della grotta non è più soggetto a fenomeni di riempimento e sedimentazione. Tanto da essersi in parte contratto creando appunto una sorta di piastrelle compatte che aderiscono al substrato roccioso. Un deposito che sembra quindi poter contare unicamente sull'apporto di umidità legato alle correnti d'aria. Questa in particolare è una zona della grotta che in passato è stata chiaramente soggetta a fluttuazioni del livello di falda e che ha vissuto un regime anche freatico. Volendo sintetizzare il fondo di un vecchio sifone o quasi sifone ormai completamente scollegato da ogni flusso idrico. La roccia madre è un calcare selcifero, ma il sistema ha avuto una chiara origine SAS, ovvero legata a fluidi solfurei, attualmente non più presenti come scorrimento attivo. Questo passato ha però permesso la presenza in grotta di abbondanti depositi di solfati, (gesso) come prodotto della reazione tra carbonati e acido solforico. Solfati che si presume siamo finiti anche nei sedimenti e nei depositi fangosi. 



Se proviamo ad alzare una di queste belle mattonelle di fango, cosa troviamo sotto? Troviamo che le stesse aderiscono alla roccia madre con una sorta di interfaccia costituita da una sottile pellicola di carbonati, calcite apparentemente molto pura, fortemente alterata e polverosa, ma capace di conservare una struttura complessa a nido d'ape: alveolare con bolle e cavità più o meno profondi, di dimensione costante, tutte sviluppatesi in una sottile pellicola di calcite di alcuni millimetri. La pellicola conserva una sorta di stampo e controstampo degli alveoli, di cui la parte positive, le emisfere, appare molto più alterata tanto da sbriciolarsi, mentre la struttura a rete ottenuta dalla coalescenza degli alveoli ha una sua rigidità e appare fortemente coesa alla massa fangosa del sedimento. 




E se guardiamo di lato sul bordo della piastrella cosa vediamo? Beh vediamo chiaramente che la struttura del sedimento non appare omogenea, ma finemente stratificata, con zone più chiare e zone o bande più scure, nere, oltre che zone dove il colore del fango appare alterato sul rossastro. Guardando una cosa del genere la prima cosa che viene in mente è ovviamente la colonna di Vinogradskj. Ovvero la rappresentazione di un ecosistema microbico stratificato, dove convivono in simbiosi batteri aerobici e anaerobici, una vera e propria colonia funzionale. La colonna classica, oggetto di infiniti esperimenti educativi, presuppone anche batteri fotosintetici, ovvero rappresenta un ecosistema il cui input energetico primario è rappresentato dalla luce solare, ma come sappiamo bene anche in assenza di sole come in grotta i batteri chemiosintetici fanno miracoli. E cosa può servire a questi simpatiche bestioline? Beh in condizioni di metabolismo anaerobico si possono facilmente accontentare di solfati da ridurre in solfuri ottenendone energia. Gesso che come abbiamo visto in questa grotta non manca. Poi se nella colonna ci mettiamo anche un poco di carbonati, che anche quelli non mancano, ecco la che la vita della colonia si stratifica e si arricchisce. 



Cosi osservando al microscopio un taglio fresco di questo sedimento, riconosciamo una selva di piccole chiazze. Tra le quali i neri rappresentano quasi certamente colonie di batteri solfo riduttori che inoltre producono come scarto anche idrogeno solforato.



Cosa succeda alla base del sedimento nello spazio di interfaccia con il carbonato non è proprio semplice da immaginare in particolare per spiegare quel tipo di struttura alveolare. Certo è che se l'idrogeno solforato raggiunge nel sedimento umido la base e trova magari nell'interfaccia anche un poco di ossigeno che filtra dalle crepe, ossidandosi ovviamente reagisce con i carbonati creando una liberazione di gas che potrebbe avere a che fare con la forma alveolare che assume questa pellicola di calcite e qui mi fermo perché la faccenda si fa complicata.
Tra le tante cose incerte, una però è chiara: anche sollevando un semplice frammento di fango si può finire in un mondo misterioso e pieno di vita.